Antonio D’Annunzio
artista, pittore, scultore
La formazione artistica sviluppa nel giovane D’Annunzio quella profonda vocazione all’ arte che è da sempre la sua peculiarità e la sua aspirazione; ma è sicuramente anche l’ esperienza quotidiana che lo vede immerso in una ricerca espressiva che lo identifichi nel modo a lui più congeniale, che lo fa crescere ed arrivare alle odierne operazioni scultoree.
Hanno detto …
critica all’opera
Maria Augusta Baitello
In Antonio D’Annunzio, per nostra fortuna, c’è un segno palese del recupero dell’autentica manualità, della vera capacità di prendere in mano una matita e saper disegnare, della possibilità di saper ancora plasmare la materia secondo un proprio sincero sentire senza condizionamenti critici e di tendenza.
Uno scultore, Antonio D’Annunzio, che per vocazione ha nel cuore la bellezza, quella ravvisabile nella realtà fatta di umano. Umano vivere, umano gioire, umano soffrire nel quotidiano ma anche nell’eterno, nell’attimo che fugge così come nel senso d’infinito. Questa tensione verso la forma, verso una figurazione che non si sottrae alle difficoltà dell’arte e che non può fare a meno del pathos, della partecipazione profonda dell’animo, trova una concrezione materiale in D’Annunzio mediante la modellazione plastica dell’argilla.
L’artista ha come tema centrale della sua poetica il corpo umano, un corpo relazionato all’altro, alla collettività, e un corpo solitario in rapporto più drammatico con se stesso. L’artista ambienta le sue forme plastiche in contesti senza precisi riferimenti spazio-temporali. Il corpo viene visto immerso nella realtà interiore e dolente ma comunque realtà, degna di essere respirata, amata, vissuta nella sua totalità. Questi i contenuti che l’autore esprime e che desidera con genuino entusiasmo far conoscere al pubblico.
Catalogo mostra “Il corpo, la realtà, la forma” insieme all’artista Cornelio Prezioso – 4/22 luglio 2007 presso Bagno Borbonico del museo genti d’abruzzo, Pescara
“La nostalgia dell’ Eden”
Lacerata martoriata, con i lembi strappati si presenta ai nostri occhi la carne dell’ uomo scolpita da Tonino D’Annunzio. Esili corpi umani che si avvolgono su se stessi e poi si sviluppano attorno ad elementi lignei forti e rettilinei; corpi trapassati dalla stessa materia rigida su cui si espandono, si sovrappongono, si contraggono perché contrappuntati dagli spasmi di un dolore che non è solo fisico ma che è soprattutto dolore dell’ anima.
Così il legno o la stessa terracotta con cui Antonio D’Annunzio dà forma ai corpi umani assumono, nel loro retto definirsi, una valenza dialettica rispetto alle presenze figurali caduche e fluidiformi. La debole e fragile materia corporea sembra, dunque, flettersi e soccombere nell’ impatto con le potenti morfologie diedriche dell’ oscura natura.
D’altronde in tutta la produzione scultorea del nostro autore troviamo questa diatriba, questo perenne scontro-incontro, che è poi l’eterno conflitto dell’ esistenza umana che avverte la finitezza della propria dimensione ma anela all’ infinito dibattendosi continuamente tra quegli elementi antitetici che D’Annunzio esprime attraverso l’evidente contrasto di forme rigide e forme fluide, tra forme aperte e forme chiuse, tra luminosi e più ampi andamenti plastici e vortici di materia dove l’ombra diviene oscurità abissale.
L’argilla plasmata dal nostro artista si staglia tra superfici traslucide e quasi trasparenti e agglomerazioni materiche aspre e corrose, tra linearismi purissimi ed espressivi di una dimensione solo immaginata a cui l’ animo umano tende e drammatiche increspature colorate di rosso in cui la terracotta, bianca o trattata, si increspa come nuovamente attirata e soggiogata dalle effimere ragioni di quell’ antichissima condanna.
L’eterna battaglia tra materia e spirito sembra, quindi, essere il tema dominante nella poetica di D’Annunzio dalla quale non è certamente esente la conoscenza della polemica michelangiolesca a cui l’ autore si ispira in una sorta di rivisitazione personale ed estremamente onesta nell’ affermare il desiderio di assimilare e reinterpretare i grandi maestri del passato.
E non è un caso che il nostro autore, tra l’altro con grande umiltà, si sia proposto di affrontare la difficile rappresentazione del corpo umano mediante un linguaggio figurativo che guarda agli irraggiungibili modelli dell’arte eterna : un atteggiamento, questo, che ci racconta del desiderio di molti nostri autori di rintracciare quella bellezza che esiste nella realtà ed a cui l’artista è in grado di rivolgersi nel tentativo di esprimerla attraverso i propri mezzi espressivi. Una bellezza che d’altronde è anche sinonimo di quell’ infinito cui ognuno di noi tende malgrado tutto e che esprime forse la nostalgia dell’ Eden, ossia la malinconia nei confronti di una dimensione di esistenza della quale a volte ci sembra avere un vago ricordo, di cui percepiamo la bellezza e che solo l’arte, appunto, può manifestare attraverso lo scarto, l’ abbandono di ciò che ci opprime e ci trattiene.
Di tale condizione, D’Annunzio, interpreta, allora, tutta la profonda sofferenza soprattutto nell’ esecuzione dei bellissimi basso-rilievi che caratterizzano in massima parte la sua produzione scultorea. Ma tali forme plastiche non possono essere definiti semplici bassorilievi in quanto l’abile perizia tecnica di Antonio D’Annunzio permette alla materia, sensibilissime variazioni di aggetto: dal rilievo minimo, “stiacciato”, lo scultore passa con disinvoltura a volumi più importanti fino a far tendere la materia verso lo spazio antistante.
La molteplicità dei diversi spessori ci dice di una competenza tecnica che ha del virtuoso: ma quel che ancora sorprende è la forza di cui appare dotata la terracotta, potente, sotterranea, tumultuosa, connotata da un vitalismo immanente in grado di annullare la naturale inerzia della stessa materia e di imporsi fisicamente nell’ ambiente antistante. Corpi che, in tal modo, cercano di divincolarsi dalla arida prigionia dell’ ambito sensibile flettendosi ed arcuandosi in un drammatico desiderio di libertà.
D’Annunzio racconta, così, il dolore non di un uomo qualsiasi ma di tutta l’ umanità, il dolore universale di quella condizione ineluttabile ma contro la quale si può lottare ed uscire vittoriosi; una battaglia che si combatte nella stessa dimensione terrena, attraverso l’ umano, nell’ ambito stesse di quella dimensione di esistenza dove i corpi plasmati dal nostro scultore cercano, con fatica di farsi strada tra gli aspri meandri dei solchi plastici, tra i tagli profondi e i piani dagli impervi spessori sincopati.
Spesso le figure umane dei bassorilievi non hanno volto, in alcune opere, invece, i delicati connotati fisionomici del viso sembrano dissolversi nel ruvide superfici materiche, annullarsi nella vischiosità di elementi informi. In antitesi a tali ambigui moderni si stagliano, naturalmente, i linearismi lirici che delimitano e sott’ intendono i corpi lunghi e affusolati, spesso accompagnati da interventi di colore atto a suscitare una maggiore drammaticità.
Il “farsi” di questa scultura così mossa, sensibile, a volte impressionistica, dai valori quasi atmosferici che progressivamente sembra alzarsi, impennarsi e sbocciare seppur con accenti drammatici, ci parla, comunque, di una possibilità di riscatto, di salvezza. L’umanità scolpita da Antonio D’Annunzio sembra respirare, si erge sussultando, si protende a fatica e fino allo spasmo verso lo spazio ma anela, con speranza, verso la luce.
Daniela Madonna
“Ignis” Presentazione catalogo Incontrarti 2011 – Le proposte del Premio Vasto
Antonio D’Annunzio esplora ad ampio raggio il tema della mostra, a partire dalla scelta della tecnica esecutiva di riferimento. Le sue terrecotte, infatti, conservano il fascino dell’incontro antichissimo tra l’argilla e l’ardore del legno incendiato.
Duttile, obbediente, esigente, la creta tra le mani dello scultore assume una vita nuova e diviene forma compiuta. Una forma che va dall’umile atto dell’accensione del fuoco da parte di un giovane paziente e disincantato, alla complessa fantasmagoria dell’ Inferno dantesco. Al cerchio dei lussuriosi, in particolare, l’artista dedica sperimentazioni polimateriche, rappresentando il contorcimento delle anime arse dalla passione.
Articolo pubblicato sul mensile “Vasto Domani”
“La dinamica della forma nell’opera di Antonio D’Annunzio”
Quando il fare arte scaturisce da una sincera passione coltivata sin dalla prima giovinezza, non esiste ostacolo materiale o spirituale che impedisca all’uomo scaldato dal soffio della creatività di tradurre in esternazioni visibili e in forme armoniche il fuoco espressivo che gli si agita dentro.
Talvolta la vita porta a compiere scelte professionali diverse da quella indicata dall’impulso più intimo, ma ciò non toglie che, accanto al lavoro ordinario svolto al di fuori dell’amato atelier o del laboratorio personale, l’artista riesca a ritagliarsi momenti preziosi in cui possa trasformare le idee in opere uniche ed irripetibili.
Spesso la dimensione creativa vibra e prende corpo allorché il resto del mondo si dedica alla distensione o al riposo, richiedendo un notevole impiego di pazienza e concentrazione. Nessuna stanchezza può frenare le abili dita che sembrano nate per modellare la creta, o il pennello che volge in immagini le arditezze delle fantasie più recondite. Può capitare, così, che il nuovo giorno saluti le ultime ombre della notte prima che il percorso dell’in venzione estetica possa dirsi compiuto.
La situazione appena descritta riflette anche la realtà di alcuni tra gli esponenti dell’arte contemporanea operanti in Abruzzo, ma si ispira in particolare a quella dello scultore e pittore Antonio D’Annunzio, che da anni affianca l’esperienza dell’elaborazione artistica ad un’occupazione nel settore secondario. Originario di Carpineto Sinello, Antonio vive a Vasto con la famiglia. La sua scelta è stata quella di riavvicinarsi ai luoghi natali dopo essersi diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma.
La ricerca che lo caratterizza segue diverse vie di sviluppo e sperimentazione, soffermandosi soprattutto sulla scultura dell’argilla e sulla pittura. Nel primo campo l’artista si esprime con una libertà ed una naturalezza che inglobano sublimi modelli di maestri del passato, superandoli in direzione di risultati originali manifestanti l’intatta tragicità dell’uomo di oggi.
Il vigore delle masse corporee delle figure, la perfetta conoscenza di ogni solco e avvallamento anatomico, la continua rappresentazione della materia che partorisce la forma e il tipo di dialogo intrattenuto con i soggetti trattati, ricordano la poesia e i silenzi di Michelangelo, strappati da ogni sorta di cristallizzazione e aperti a nuove declinazioni comunicative.
Al di là della sapienza del modellato, ciò che colpisce nei bassorilievi e negli altorilievi di Antonio D’Annunzio è il dinamismo che anima la fisicità delle sue creature, pervase da uno spirito veemente sempre pronto a scavalcare la soglia della ribellione per mostrare la vitalità di un pensiero pulsante e refrattario alla quiete. Nelle scene affollate di corpi agitati, tra i pieni e i vuoti incisi da linee profonde, serpeggia un’energia che richiama il turbinio delle anime infernali descritte da Dante, al quale l’autore sembra ispirarsi nella ricerca di un possibile Paradiso.
La meta ambita, però, conserva in sé la nostalgia e la sensualità del transeunte, al quale gli uomini, le donne e persino gli angeli rappresentati dal Maestro mostrano di non voler rinunciare. Anche negli acquerelli, realizzati su supporti increspati e stratificati, il collegamento con la storia eterna percorre le straordinarie strade del quotidiano: Adamo ed Eva hanno volti comuni, la vita dello spirito si rispecchia nell’effimero abbecedario dell’erotismo, il passaggio intergenerazionale dei valori e degli affetti segue i sentieri delle rughe impresse sui volti degli anziani e gli sguardi setosi di un’infanzia accesa di speranza e innocenza.
Nel complesso, D’Annunzio narra una vicenda che è insieme personale e collettiva, parlandoci di situazioni esistenziali che ci appartengono e nel contempo appaiono sfuggenti. In ciò consiste la grandezza della sua arte, che senza dubbio continuerà a stupirci negli anni che verranno.
Giuseppe Fidelibus
Catalogo mostra “Il corpo, la realtà, la forma” insieme all’artista Cornelio Prezioso – 4/22 luglio 2007 presso Bagno Borbonico del museo genti d’abruzzo, Pescara
A proposito dell’arte scultorea di Antonio D’Annunzio
La scultura di A. D’Annunzio è drammatica e inquietante allo stesso tempo. Ha una storia ed ha una tradizione come la materia che informa (la terra cotta) e come il popolo che esprime e a cui appartiene: il popolo abruzzese. Drammatica e inquietante perché vissuta e nasce da un vissuto, come nei guerrieri e gli “esausti” nei quali s’incarna delineandone il soggetto.
In essi — come nei “desaparecidos” — è tutta l’umanità storica odierna a soffrire; a soffrire soprattutto dei propri moderni trionfi; percossi – e finanche sezionati —resistono ed esistono entro la forma nella quale e per la quale gridano. La tecnica, nella mano di D’Annunzio, si pone al servizio di questo grido nel quale la terra cotta stessa sembra soffrire attingendo, in questo medesimo soffrire, la forma parlante ed espressiva sua propria. Qui la mano modellante dello scultore “patisce” come la pennellata pittorica di un altro artista abruzzese: Teofilo Patini. La figura non si costituisce come soggetto se non all’interno di questo orizzonte di significante soffrire. Il dramma, perciò, non è meno della materia che della forma.
Una beata filiazione dall’uomo antico presiede all’inquietudine scultorea di D’Annunzio; egli, mentre dà voce alla “sua terra” sorprende, in azione, il distendersi della sua coscienza artistica. In questo movimento, appunto, la tensione titanica del “cavallo” o dei “prigioni” si converte nell’umile gesto di mendicanza dell’ “angelo mendicante”; così, analogamente, lo slancio idealizzante del fachiro danzante si stempera nella tenerezza paradossale che anima il gruppo “la forza”.
Questa si ritrova, alfine, trasfigurata (in quanto ricondotta alla sua fonte originaria) nella “Pietà”, quella pietas che intercorre — con realismo di gesto – tra il volto filiale di Cristo e quello materno della Madonna nell’atto dell’incontrarlo col suo sguardo ed avvolgerlo nel suo manto di madre. E’ la stessa discrezione (vi è fatta umilmente salva la sacralità del Mistero) che si può ammirare nella — certamente più “solare” – natività del “Presepe” di Carpineto Sinello. Con ciò l’arte ritrova nell’evento della maternità il suo terreno originario e in quello della purità verginale la sua feconda perfezione formale.
In questo itinerario, che è estetico-stilistico ed insieme profondamente ontologico-esistenziale, la materia attinge la forma sua propria nell’atto stesso del suo soffrirne la mancanza. Per converso, nell’azione modellante del suo artista sembra esserci tutto l’uomo moderno a gridare (sotto la forma iconica dell’uomo antico) il suo — inesausto — desiderio di significato. Il presente si protende al suo futuro consegnandosi esteticamente alla memoria del suo passato.
La scultura di D’Annunzio disegna, perciò, il percorso ad un equilibrio armonico cui le figure pervengono solo solfo la passione del loro stato frammentario ed “esausto” (chenotico). Sotto le fattezze del “giusto sofferente” permane – costante perché redenta e redentrice – l’icona vera del suo linguaggio artistico. Nell’icona di Cristo e nella nostalgia del suo Volto tale linguaggio consegue e pronuncia, finalmente, il suo “Verbo-fatto-carne” in attesa palpitante del suo redentivo e grazioso accadere…
Vale per l’arte di Antonio D’Annunzio ciò che Mounier scrive a proposito del disvelamento del vero nella fatticità dell’umano esistere: “E’ dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché In verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”.
Valentina Tudino
Originario di Carpineto Sinello, Antonio D’Annunzio ha passato la sua infanzia in questo paesino del vastese. Sin da piccolo rivela un talento innato per il fare artistico che matura modellando l’argilla.
L’argilla, la terra, è l’elemento primo della vita. L’elemento che forse dice meglio dell’origine dell’uomo, humus, polvere, e allo stesso tempo vita.
Le opere di Antonio non sono mai banali, portano dentro una ferita, la ferita del tempo che scorre, il logorio della carne che dice dell’uomo che vive, che lavora, che ama, che soffre.
Ecco perché i suoi bozzetti non sono mai banali, la vita non è mai banale, se vissuta intensamente. Significativa è l’opera “Dio-soffiò” dove percepiamo tutta la poetica dell’artista. Dopo quel soffio, la vita inizia, la terra prende vita e così Antonio ripete quel divino, primigenio gesto, per imitare il mestiere di Dio.
La sua tecnica, potrebbe essere catalogata come “non finito” o “bassorilievo”, ma ontologicamente parlando la sua è una tecnica finita e a tutto tondo! I corpi che emergono dal fondo piatto della tavola di argilla senza venir mai fuori completamente, sono finiti. Anzi sfiniti! Supporto e figura si legano e si compenetrano: non è concepibile l’idea di figura senza il suo supporto, perché i corpi sono come imprigionati, incollati, aderenti al loro supporto, cosi come per noi il terreno che non riusciamo a staccarci dalle suole. E’ la condizione umana, è il limite che ci caratterizza, questa materia che decade, inevitabilmente si sfalda, si sbriciola perde pezzi. (vedi Esausti).
Neanche chi è avvezzo a giocare con la morte sfugge alla legge dell’esistenza, lo scudo vola via e il guerriero cade a terra.
L’autore dell’opera sembra dare un resoconto dell’esistenza senza barare: non bara neanche nel sorriso appena accennato degli esausti. Non bara, perché quel logorio ha un senso, quella materia disciolta dice di una positività. Di un rapporto, di un dialogo con un tu, che chiamata, richiama a sé. Vocato. Vocazione. (vedi Chiamata). Il mestiere di vivere, direbbe Cesare Pavese.
Dannazione direbbe Ungarettí: -Chiuso fra cose mortali/ anche il cielo stellato finirà/perché bramo Dio? -: questo sembra uscire dalle labbra dei “prigioni” di Antonio.
Egli non bara neanche di fronte alla sua tradizione. Dio fatto uomo, humus, polvere. Dio caricato del dolore umano, Dio, la perfezione, lacerato, scheggiato dal tempo. (vedi Pietà). Quel fatto accaduto 2000 anni fa che dà a quel solco sul viso la dignità di letizia e non di ironico ghigno.